"il segno che bisogna dare è il segno della mancanza del significante. E' l'unico segno che non si sopporta perché provoca un'angoscia indicibile. E' tuttavia l'unico modo che possa far accedere alla natura dell'inconscio: alla scienza senza coscienza"



J. Lacan, Seminario VIII, pag. 257.




venerdì 29 aprile 2011

Modernità della psicoanalisi. Nella clinica, nella cultura, nel sociale

Casa Internazionale delle donne
Via della Lungara 19 (ingresso da Via S. Francesco di Sales) Roma

Sabato 7 maggio, ore 10.00

Interviene

Paola Francesconi membro SLP AMP Presidente della Scuola lacaniana di Psicoanalisi

Contributi dei membri e partecipanti alle attività della Segreteria di Roma


"La psicoanalisi non può proporre il ritorno a un umanesimo prima del discorso della scienza, il ritorno a un padre precedente alla sua dissoluzione. Se teniamo conto di questa definizione della modernità della psicoanalisi, potremmo darci come stimolo per il lavoro del Convegno l'interpretazione e la decifrazione di come ciascuno di questi tre ambiti (clinica, cultura, sociale), sia rimaneggiato, rimodellato, dall'incidenza del discorso scientifico attuale, e collocare in queste conseguenze la psicoanalisi e la sua capacità, a partire dalla sua esperienza, di isolare i punti in cui si segnala maggiormente il rischio di quella forclusione del soggetto che è sempre all'orizzonte dello sviluppo esponenziale della scienza contemporanea. Forclusione particolarmente evidente quando, nel terreno clinico, il ricorso alla chimica, o alla causalità biochimica, tende ad abolire il reale dell'essere parlante" (SLP- Corriere Verso Catania, Paola Francesconi)

Per la Segreteria,
Laura Rizzo

La torta di miraggi (primo atto)

... e che diventino indifesi come bambini. Perché la debolezza è potenza e la forza è niente. Quando l'uomo nasce è debole e duttile. Quando muore è forte e rigido. Così come l'albero, mentre cresce è tenero e flessibile. E quando è duro e secco muore. Rigidità e forza sono compagni della morte. Debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell'esistenza. Ciò che si è irrigidito non vincerà.

Stalker (1979) - A.Tarkovskij - Il monologo dello Stalker




Sono partita, in questa caccia all'Io lacaniano, dal testo degli Scritti “Funzione e campo della parola e del linguaggio” (p. 231-316 dell'edizione italiana). Si tratta di una relazione, tenuta da Lacan all'Istituto di Psicologia di Roma il 26 e 27 settembre 1953 a un Congresso di psicoanalisti di alcuni paesi europei.
Nel '53 era in atto un conflitto tra la Società parigina dell'IPA (Società Internazionale di Psicoanalisi fondata da Freud). Successivamente a questo conflitto Lacan creerà la Società Francese di Psicoanalisi. Lacan parla a questo Congresso nonostante ci siano stati dissapori e tentativi di non farlo parlare in questa sede. E' interessante notare che cinquant'anni dopo, cioè nel periodo in cui collaboravo con un professore dell'Università di Roma, ho ricevuto il veto definitivo su Lacan: potevo seguire tesi, ma non su Lacan, potevo tenere seminari, ma non su Lacan. Ordini superiori, ancora influenti, da quello che dicono, oggi, nel 2011, quasi sessant'anni dopo “Funzione e campo”.
Lacan almeno allora poté parlare. E' vero che era un personaggio importante della Società parigina e uno psicoanalista piuttosto conosciuto della Società Internazionale.
Direi che il nucleo della questione risiede proprio nella concezione lacaniana di io, che fa precipitare nel vuoto tutta la psicoanalisi dell'io, nonché quasi ogni forma di psicoterapia.
Rendere l'ego più forte è la finalità di tutte queste terapie, più forte, come quello del terapeuta, che ce l'avrebbe più forte di tutti, almeno di tutti i suoi pazienti.
Come si misura la forza dell'ego? Dalla capacità di sopportare la frustrazione. Ma, in una psicoanalisi, osserva Lacan, la frustrazione non deriva che da lui, dall'ego.
Il soggetto si impegna, in analisi, in “uno spossessamento sempre maggiore di quel certo suo essere di cui, a forza di pitture sincere che ne lascino l'idea non meno incoerente, di rettificazioni che non riescono ad isolarne l'essenza, di puntelli e di difese che non impediscono alla sua statua di vacillare, di strette narcisistiche che si estenuano ad animarla del loro soffio, finisce per riconoscere che questo essere non è mai stato altro che la sua opera nell'immaginario e che quest'opera delude in lui ogni certezza.” (242-243)
Ecco qua riassunti dieci-venti-trentanni di analisi in poche righe.
La frustrazione non è di un desiderio, ma di un oggetto, l'io, in cui il desiderio del soggetto è alienato.
L'aggressività non è affatto quella animale di un desiderio frustrato, ma quella dello schiavo, che è frustrato perché lavora per un altro, il suo io.
Cosa c'è sotto l'analisi delle resistenze? Un io più figo, sempre quello dell'analista, con cui fondersi. Quindi una nuova cattura, non meno immaginaria di prima.
“L'arte dell'analista dev'essere quella di sospendere le certezze del soggetto, finché se ne consumano gli ultimi miraggi.” (245)
E l'analista deve dare l'interpunzione affinché il pasto si consumi, e il taglio della seduta è uno degli strumenti di cui si serve per questa operazione di punteggiatura.
Del resto la difesa della seduta breve è una delle ragioni di questo testo.
L'interpunzione del taglio della seduta, la sua interpunzione 'puramente cronometrica' facilita il consumo, da parte del soggetto in analisi la sospensione delle certezze, il consumo degli 'ulltimi miraggi' e il precipitare della conclusione.
E' così che può prodursi, per Lacan, la regressione, che è “l'attualizzazione nel discorso delle relazioni fantasmatiche restituite da un ego ad ogni tappa della decomposizione della sua struttura.
Il solo oggetto alla portata dell'analista è la relazione immaginaria, che non è eliminabile, è tramite quella che è legato al soggetto in quanto io. L'analista deve servirsene alla maniera del vangelo “ orecchi per non intendere” o come dicono i csi: “la facoltà di non sentire
la possibilità di non guardare”.

anche la disperazione impone dei doveri
e l'infelicità può essere preziosa
non si teme il proprio tempo è un problema di spazio
non si teme il proprio tempo è un problema di spazio
geniali dilettanti in selvaggia parata
ragioni personali una questione privata
la facoltà di non sentire
la possibilità di non guardare
il buon senso la logica i fatti le opinioni le raccomandazioni
occorre essere attenti per essere padroni di se stessi occorre
essere attenti
luogo della memoria pomeriggio di festa
giovane umanità antica fiera indigesta


ché vi cito questa canzone? Innanzitutto perché Lacan ci spinge: siate contemporanei.
“non si teme il proprio tempo è un problema di spazio”
E i CSI lo sono stati contemporanei, perché questa canzone ha parlato a moltissimi giovani, giovani adulti e giovani che non lo erano già più. Migliaia di noi si sono riconosciuti in queste parole.
L'estratto è dalla canzone Linea Gotica, dell'album Linea Gotica, pubblicato nel 1996 dai CSI, Consorzio Suonatori Indipendenti, gruppo rock indipendente nato dalle ceneri dei CCCP.
La canzone (come si legge su Wikipedia) è incentrata su alcuni avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale. E la linea Gotica, Goetenstellung, fu la linea difensiva istituita dal fedelmaresciallo tedesco Albert Kesselring nel 1944 nel tentativo di rallentare l'avanzata dell'esercito alleato verso il nord Italia. La canzone si apre con una citazione di un racconto di Beppe Fenoglio, con riferimenti alla città piemontese, Alba, protagonista di un capitolo della storia della Resistenza italiana.
Ma io trovo in queste parole una grande risonanza universale per quello che evoca Lacan della posizione dell'analista che deve avere orecchi per non sentire, ma anche per quello che rappresenta la fine di un'analisi, almeno gli ultimi anni dell'analisi, dove si dispiegano 'gli ultimi miraggi' e si avverte che, siccome, come dice Lacan, a proposito del non agire dell'analista: “è fondato sul nostro sapere affermato circa il principio che tutto ciò che è reale è razionale, e sul motivo che ne deriva che spetta al soggetto ritrovare la sua misura.”
Solo così il soggetto può arrivare a cogliere la sua schiavitù immaginaria, e arrivare a scegliersi la parte, ammesso che lo voglia.
Ma non tutti possono smettere di gustare la torta alla crema, e non tutti quelli che possono, lo vogliono. Certo è che non ci sono vie di mezzo: o ci si gode. O no. O si desidera. O no. Se si continua a consumare miraggi non si può assumere la responsabilità del proprio desiderio.
“La fine di quel momento è quello che viene chiamato castrazione. L’accettazione di quello porta la normalità. Non tutti l’accettano devo dire….” (Conferenza di Antonio Di Ciaccia sul Seminario XVIII di J. Lacan, venerdì 26.11.2010. Rimini, gentilmente sbobinata da Ermanna Mazzoni)

Prima parte dell'intervento di Annalisa Piergallini
Antenna di Ancona, Istituto Freudiano, 28.01.2011
(ilmiolacan/blogspot.com)