"il segno che bisogna dare è il segno della mancanza del significante. E' l'unico segno che non si sopporta perché provoca un'angoscia indicibile. E' tuttavia l'unico modo che possa far accedere alla natura dell'inconscio: alla scienza senza coscienza"



J. Lacan, Seminario VIII, pag. 257.




venerdì 22 giugno 2012

Intervento al Convegno slp Bologna 2012

Perché mi sono infatuata di Lacan? Ho preso tra le mani un libro, era di mia madre. Mia madre compra e consuma libri in quantità. Il nostro appartamento traboccava di libri,
uscivano da sotto i letti, dalle credenze in cucina, ammucchiati perfino sul
pavimento del bagno. E sì, fu proprio lì che lo incontrai. Erano gli Scritti.
Ho aperto a caso. “Dopotutto un
sogno è solo un sogno.
Coloro che oggi ne disdegnano lo
strumento per l’analisi hanno trovato, come abbiamo visto, strade più sicure e
più dirette per ricondurre il paziente ai buoni principi e ai desideri normali,
quelli che soddisfano a veri bisogni. Quali? Ma i bisogni di tutti, amico mio.
Se questo ti fa paura, fidati del tuo psicoanalista, e sali sulla tour Eiffel per
vedere com’è bella Parigi. Peccato che certi saltino il parapetto fin dal primo
piano, e per l’appunto fra quelli i cui bisogni sono stati tutti ricondotti
alla loro giusta misura. Reazione terapeutica negativa, diremmo noi.”[1]
( La direzione della cura, p. 620)
Fu amore a prima lettura. Anzi è stata
un’infatuazione per quasi vent’anni e ora è amore.
Mi ha sedotto
il tono, ma anche questa presa di posizione così netta: non c'è un giusto modo
per stare bene, ognuno ha il suo. L'analista è solo un oggetto nelle mani del
paziente, che lo maneggerà e potrà vederci ciò che vuole fino a che ne consumerà
gli ultimi miraggi. Poi qualcosa di questo dovrebbe cadere nella scuola.
Dunque,
dicevo, non esiste un io più forte e uno più debole che deve imparare a essere forte.
L'io non è che un miraggio, un'illusione ottica. Rendere l'io più forte è la
finalità di larga parte delle psicoterapie e della psicoanalisi in
circolazione. Anche le varie coaching counseling corsi di comunicazione,
autoconsapevolezza, terapie cognitivo-comportamentali, rieducazioni varie hanno
come presupposto un assunto del genere. Perfino la pet therapy, l'ippoterapia e
l'arteterapia hanno
questa
vocazione fascista, perché dovrebbe andare bene per tutti andare a cavallo,
dipingere o farsi un cane? Quello che mi ha attratto nella psicoanalisi di
Lacan è che non c'è qualcosa che vada bene per tutti.
Eppure sono anche
un’arteterapeuta. Sono tornata a fare la trincea e di una cosa sono certa:
insegna tanto fare l’educatore, anche in vesti poco più agghindate. Sono 6-12
soggetti con ritardo mentale, così classificati. Io mi occupo di loro come Di
Ciaccia, Baio, e nei testi, Freud e Lacan mi hanno insegnato. Prendo in carico
il soggetto. Tra l’altro tanti di loro mi appaiono come psicosi con esordi infantili,
trattati come ritardo.
Nel laboratorio
di pittura si dipinge, disegna, su quanti più supporti possibili. I problemi
sorgono nelle trappole immaginarie. Ieri, per esempio, non sono stata capace di
sottrarre Black da Jack che lo pilotava, e di conseguenza, non sono stata in
grado di essere fuori dall’asse a-a’. Quando, tre settimane fa, ho sostituito
Maria, Jack ha cercato di distruggermi, poi si è calmato e ha fatto tregua,
diventando, a tratti, cavalier servente. Poi, poco considerato da me, rea di antipatia,
scivolamento tra i più comuni, ma come dice una mia arguta paziente: dottoré,
io mi sono accorta che ce l’ho sempre con qualcuno, ora tocca a Jack.
Insomma il
lavoro non è dei più semplici, trovarsi nella stessa stanza con 12 psicotici
gravi, anche se sedati e, perlopiù educati, e bisogna dipingere.
Sulla
terapeutica dell’arte, ne sono certa.
La logopedia,
dicono, è terapeutica, la psicomotricità, il teatro, la musica, la cucina è
terapeutica, pure apparecchiare la tavola lo è. Un cavallo è terapeutico, un
cane, anche un topo di fogna può essere terapeutico, per qualcuno, in un certo
momento.
Dunque perché
ci sia della terapeutica occorre che si lavori, si crei arte figurativa. E
questo lo si fa.
Ma per
metterci, anche clandestinamente, o semiclandestinamente, un po’ di
psicoanalisi, occorre evitare la carneficina, evitare di essere persecutori ed
evitare che qualcun altro lo sia.
Jack era il
padrone, bilanciato da Miele, che è stato fin dall’inizio il mio difensore. Io
sciocca, un po’ ammaliata da Miele, ho lasciato confondermi, come ogni stupida
donna-oggetto quando crede di essere quello intorno a cui gira la disputa,
mentre ne è solo la posta.
Così, gli
affetti mentono e gli educatori, come anche gli analisti, continuamente si
addormentano, scivolano, s’appassionano o hanno voglia di sbattere qualcuno
contro il muro.
Jack e Miele
bilanciavano da sempre il gruppo, forse semplicemente Maria aveva un debole,
certo ricambiato per Jack.
Ieri Miele non
c’era, così io e Jack non siamo riusciti a tenerci fuori dall’autostrada. Cosa
ce ne tiene fuori? Cosa ci tiene? Fuori dai giochi dei nostri io. E’ lui a
frustrarci sempre e comunque perché là dove c'è il mio io non ci sono io. Siamo
frustrati perché siamo schiavi, alienati al nostro io. E' lui a prendersi i
meriti e a farci soffrire perché non è facendolo brillare che otterremo un
briciolo di felicità. “Tutto vanità solo vanità vivete con gioia e semplicità
state buoni se potete, tutto il resto è vanità.”[2] L'analista deve permettere al
soggetto di consumare gli ultimi miraggi, svelando i segreti della sua vanità e
mostrandogli che si credeva libero, ma era schiavo, frustrato perché lavorava
per un altro, il suo io.
Chi non gode
vuole godere e chi arriva a godere poi non riesce a fare nient'altro. A meno che,
soddisfatte tutte le sue curiosità, consumati gli ultimi miraggi, arrivi
finalmente a scegliersi la parte, fermarsi prima del baratro e scegliere di
vivere in modo etico.
Dunque, se io
e Jack non fossimo caduti in a-a’, il lavoro sarebbe andato meglio.
L'io è l'insieme
dei pregiudizi dell'uomo, in un'analisi il soggetto arriva oltre il muro
dell'immaginario, ne scopre l'impalcatura di ferro all'interno del cemento
armato. L'impalcatura simbolica delle sue identificazioni stratificate. L'ideale
dell'io e l'io ideale, ad ogni successiva mossa dello strip immaginario che
l'analisi impone. E sotto il vestito niente. Gli ultimi abiti saranno solo un
paio di significanti, loro danno la lente con cui si guardava il mondo. Perché
fa così paura? Perché il reale è così senza senso senza pietà senza argini come
nessun incubo può descrivere essendo già l'incubo protezione al reale. Eppure
una volta lì, siamo liberi, per quel poco che si può, liberi almeno dalla
schiavitù di un lavoro, per un altro, il nostro io. Poi si può scegliere,
recuperare le vesti stracciate, ricucirle, rattopparle, spinti da una necessità
consapevole e non da un macchinoso inconscio modo di procedere che ci fa
dimenticare anche l'amor proprio pur di far brillare il fallo che crediamo
d'avere o di essere. Sordi ciechi e muti abbiamo vagato anni girando in tondo
intorno a un paio di parole che contavano per noi, senza saperlo. Una volta
consumati gli ultimi miraggi anche la disperazione è preziosa, come cantavano i
CSI, anche il dolore è gelosamente sostenuto perché nostro e di tutto il genere
umano. Connessi tutti, ma per cosa? Per trovare un'etica nei confronti del nostro desiderio e del
rispetto dell'altrui. Solo l'etica ci può salvare, né la tecnica, né
l'anestesia né l'annegare in questo mare, che non è né dolce né speciale. Una
piccola zattera e ponti di comunicazione e se anche mille volte al giorno la
zattera si rompe e i ponti si sfaldano, noi pazienti a ricostruirli, noi sempre
al lavoro, ma per non ricadere nei mulinelli, per non rattristarci, per non
cedere.
L'io è la somma
dei pregiudizi. Gli ultimi miraggi si finiscono di consumare in un ultimo atto,
quello che passa l'analizzante a essere analista. Adesso basta, basta soggetto
supposto sapere, basta cercare, ora è il momento di fare, con quel piccolo
bagaglio che una volta ci pesava come un macigno ci chiudeva come una prigione
e ora ci spinge come un motore e ci sostiene come una pelle che impedisce a
milioni di cellule di disperdersi. Un io ancora ci sarà, relazioni immaginarie,
identificazioni, proiezioni, negazioni, intellettualizzazioni, che non saranno
difese, ma le uniche mosse possibili, e non vorremo privarci del privilegio, di
volta in volta, di scegliere. Ogni secondo scegliere da che parte stare e non
c'è via di mezzo o si è oggetti o soggetti. Se poi vorremo concederci ancora il
rischio di essere oggetti, che sia almeno deciso e non ce ne lamentiamo, come
una donna tra le braccia di un uomo, come un bambino tra i seni della mamma,
come un cane randagio che sceglie per un pranzo il suo padrone.
O come quando
stiamo tra di noi, nella scuola, dove le scivolate son più facili che se si
lavora, e anche se si sta coi buoni amici.
L'astronave
degli alieni è già sulla terra, da sempre, da quando il primo uomo ha usato la
paura degli altri uomini per sedare la propria.
Ha finto di
avere capito e di detenere un segreto, un sapere segreto, che può proteggere
dal rischio di essere umani.



Annalisa Piergallini







[1] J.
Lacan, “La direzione della cura”, in Écrits, cit., p. 620.
[2] Branduardi Angelo,
“Vanità di vanità”, in State buoni se
potete, 1983; testo di Luisa Zappa.